I vaccini rappresentano, allo stato e nelle prospettive future, l’arma vincente nei confronti del covid-19, nella ormai storicamente provata capacità di impedire l’impianto e lo sviluppo di malattie infettive anche ampiamente contagiose e letali.
Il rapporto benefici/rischi nel loro impiego è elevatissimo, posto che essi (1) sono sottoposti a studi di sicurezza ed efficacia ancora più severi rispetto ai farmaci prima della loro approvazione da parte delle autorità competenti.
Ciò nondimeno sappiamo bene, che esiste una quota di persone (no-vax, stimate tra il 3 e il 5%) che li rifiuta con posizioni radicalizzate, negativamente incidendo su una quota molto più ampia di cittadini, superiore al 30%, incerti sulla necessità di vaccinarsi.
L’avversione ai vaccini è strutturata (2) sulla paura dell’ignoto, la sfiducia nelle istituzioni, la tendenza al complottismo, il sospetto verso gli esperti e l’autorità, ed è amplificata dal veleno della disinformazione.
Tutto ciò apre delicate problematiche di ordine etico, deontologico e giuridico sulla possibilità di imposizione di un obbligo generale o, in taluni casi, privatistico di vaccinazione anti covid-19 in riferimento all’ipotesi del perdurare dello stato di emergenza pandemica non altrimenti efficacemente affrontabile sul piano nazionale.
Tanto soprattutto nell’ambito delle attività professionali maggiormente esposte all’infezione e alla trasmissione della malattia e quindi particolarmente in quelle volte alla tutela della salute dei cittadini, in termini di protezione individuale dei sanitari circa il rischio infettivo diretto da contrazione dell’infezione ed indiretto di trasmissione di questa ai pazienti.
Tali rischi appaiono particolarmente consistenti in odontoiatria, in cui i sanitari (odontoiatri, igienisti dentari, assistenti di studio) hanno abituali reiterati e protratti rapporti di vicinanza con la bocca dei pazienti sfornita di mascherina o dispositivo di protezione equivalente, non sempre con efficace aspirazione di aerosol prodotto durante l’impiego di strumenti rotanti ed oscillanti e comunque nelle più varie fasi di terapie proprie delle diverse branche della disciplina.
Orbene, a nostro avviso, pur non ricorrendo un obbligo normativo specificamente espresso di vaccinazione per tali sanitari ai fini del legittimo espletamento della loro attività professionale, sussiste di fatto l’imperativo a sottostarvi sia pure non coattivamente che, a ben vedere, non incide sulla libertà di auto-determinazione dell’individuo in materia di tutela della salute.
I fondamenti etici delle vaccinazioni risultano efficacemente evidenziati nell’ancor attuale autorevole parere del CNB (Comitato Nazionale di Bioetica) del 1995 (3), che sottolinea per l’obbligo vaccinale l’intreccio costituzionale tra il diritto alla salute (art. 32) e i doveri di solidarietà (art. 2), ponendo nel contempo in rilievo l’esigenza di garantire una corretta informazione sui rischi e i benefici delle vaccinazioni, che è necessaria anche nei trattamenti sanitari obbligatori e contribuisce a ridimensionare la percezione del pericolo, che a volte porta al rifiuto ingiustificato, soprattutto per quanto riguarda la popolazione infantile. Nel parere vengono, peraltro, manifestati dubbi sulla legittimità dell’obiezione di coscienza nei confronti delle vaccinazioni obbligatorie, quando esse siano richieste per la tutela della salute individuale e collettiva e non vi siano altri metodi per tutelare questo bene.
L’obbligo vaccinale è imposto per legge in casi specificamente previsti, rientrando nei cosiddetti Trattamenti Sanitari Obbligatori (TSO).
In tal senso si sarebbe portati a ritenere che se una determinata vaccinazione –nella fattispecie quella contro il covid-19- non è prevista quale obbligo di legge non è possibile imporla.
Si tratta, però, di una desunzione superficiale, perché alla obbligatorietà, ancorchè non coattiva, si giunge di fatto, specie per gli operatori sanitari, in quanto l’eventuale rifiuto opposto non incide sugli ordinari obblighi ricadenti sul datore di lavoro in tema di sicurezza.
In particolare, l’art. 2087 c.c. fa obbligo al datore di lavoro di adottare tutte le misure idonee a prevenire sia i rischi insiti all’ambiente di lavoro, sia quelli derivanti da fattori esterni e inerenti al luogo in cui tale ambiente si trova, atteso che la sicurezza del lavoratore è un bene di rilevanza costituzionale che impone al datore di anteporre al proprio profitto la sicurezza di chi esegue la prestazione.
Il DLgs 81/08, nella sua complessità, impone di valutare tutti i rischi che possono ricorrere durante l’attività lavorativa e pertanto comprende anche quello da SARS COV-2 estendendo le misure di prevenzione al rischio derivante da tale patogeno per l’uomo secondo quanto previsto dalla direttiva UE 2020/739 del 3 giugno 2020 recepita dal nostro Paese (4).
Si aggiunga, poi, che la recente L. 24/17 all’art. 1, a fine di protezione dei pazienti, riconosce che la sicurezza delle cure è parte costitutiva del diritto alla salute e si realizza anche mediante l’insieme di tutte le attività finalizzate alla prevenzione e alla gestione del rischio connesso all’erogazione di prestazioni sanitarie attraverso il doveroso concorso di tutto il personale sanitario, compresi i liberi professionisti che vi operano in regime di convenzione con il Servizio sanitario nazionale.
Per effetto di tutto quanto sopra il datore di lavoro (quindi anche l’odontoiatra libero professionista nei confronti di sé stesso e dei propri dipendenti di studio) deve sottoporsi a vaccinazione contro il covid-19 a tutela della sua persona, dei pazienti e dei suoi dipendenti (del cui operato risponde) e curare che questi gli comunichino, una volta chiamati dal SSN, se si sono sottoposti al vaccino.
Nell’ipotesi di avvenuto rifiuto o di documentata impossibilità sanitaria alla somministrazione, se da ciò discende, secondo quanto valutato dal medico competente, una inidoneità alla mansione specifica che non possa essere superata mediante l’adozione di misure tecniche, procedurali ed organizzative contro il rischio del covid-19 il datore di lavoro adibisce il lavoratore, ove possibile, ad altra mansione compatibile con il suo stato di salute, garantendogli la retribuzione corrispondente alle mansioni precedentemente svolte, nonché la qualifica originaria.
Qualora ciò non fosse effettivamente possibile per incompatibilità con il concreto assetto organizzativo e strutturale dell’ambiente di lavoro potrebbe giungersi al licenziamento.
Va peraltro tenuto presente che l’omissione dei suddetti doverosi comportamenti da parte dell’odontoiatra nei confronti dei propri dipendenti cui consegua al paziente e/o al dipendente stesso una malattia da coronavirus (covid-19) in riconosciuto rapporto causale lo espone ad addebiti di natura penalistica e civilistica.
L’obbligo del medico/odontoiatra di agire nei confronti dei propri assistiti nel rispetto del principio di sicurezza delle cure assume anche rilievo deontologico costituendo preciso richiamo ad una correttezza comportamentale professionale in cui può certamente farsi rientrare in maniera implicita anche un responsabile approccio alla pratica vaccinale quale prevenzione di danni ai suoi pazienti.
Personalmente siamo convinti dell’assoluta sicurezza ed efficacia dei vaccini e quindi della indispensabilità del loro impiego anche nei confronti della pandemia da SARS COV-2. Il rifiuto ad assumerli da parte del personale sanitario contraddice la loro cultura e l’essenza stessa della professione, ma qualora ci si imbattesse in casi del genere si è dell’avviso che più che ogni forma di pressione persuasiva può sortire utile effetto una leale attività di convincimento all’accettazione spontanea della vaccinazione attraverso corretta informazione e comunicazione che sia, come indicato dal Comitato Nazionale per la Bioetica (5), sinceramente trasparente, chiara, comprensibile, consistente e coerente, basata su dati scientifici sempre aggiornati.
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